Milorad Pavić – Il servizio da tè Wedgwood
(traduzione di Bojana Borkovic Marcello)
Nella storia che viene raccontata qui i nomi dei protagonisti saranno assegnati alla fine dell’esposizione anziché all’inizio.
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Fu alla Facoltà di Ingegneria civile della capitale che ci presentò il mio fratello più giovane, il quale studiava filologia e arte marziale. Siccome lei cercava un collega con cui preparare “Matematica I”, iniziammo a studiare insieme, e non essendo dalla provincia come me, studiavamo nella grande casa dei suoi genitori. Ogni mattina abbastanza presto passavo accanto alla brillante automobile di marca Layland-Buffalo, che apparteneva a lei. Davanti alla porta mi chinavo e cercavo un sasso, lo mettevo in tasca, suonavo e salivo al piano. I libri, i quaderni, e gli strumenti, non li portavo; stava tutto da lei ed era sempre tutto pronto per il lavoro. Studiavamo dalle sette alle nove, poi ci veniva portata la colazione, e poi continuavamo fino alle dieci, e dalle dieci alle undici in genere ripetevamo la materia appena studiata. Durante tutto quel tempo io tenevo in mano il sasso, il quale, nel caso in cui mi assopissi, mi cadeva dalle mani sul pavimento prima che si potesse notare qualcosa. Dopo le undici lei studiava ancora, però io dopo quell’ora non continuavo con lo studio. Così l’esame di matematica veniva preparato tutti i giorni tranne la domenica, quando lei di nuovo studiava da sola. I risultati erano tali, che lei si accorse molto velocemente che io non riuscivo a seguirla e che il mio sapere rimaneva sempre più indietro rispetto al suo. Pensava che le mie dipartite fossero dovute al desiderio di prepararmi anche un po’ da solo dalle lezioni che avevo perso, però non ne faceva menzione. “Che ognuno come un lombrico mangi la propria strada di fronte a sé”, pensava, conscia che insegnando ad un altro, lei stessa non imparava.
Quando venne la sessione di settembre, ci mettemmo d’accordo di trovarci la mattina dell’interrogazione e di andare insieme all’esame. Così emozionata non fece in tempo a sorprendersi particolarmente del fatto che quel giorno io non apparvi e che non c’ero neanche all’interrogazione. Solo dopo che passò l’esame, ebbe il tempo di chiedersi cosa mi fosse successo. Però io rimasi lontano fino all’inverno. ”Perché, tutto sommato, tutti gli insetti dovrebbero raccogliere il miele?”, concluse lei, però comunque a volte poneva una domanda a se stessa: “Cos’è che fa lui in realtà? Sicuramente è uno di quei portatori di sorriso, che comprano la propria merce all’est e la vendono all’ovest o viceversa…”
Quando venne il momento di preparare “Matematica II” mi incontrò all’improvviso una mattina accorgendosi con interesse delle nuove toppe sui miei gomiti e dei neocresciuti capelli, che non gli aveva mai visto prima. Tutto si ripeté come la prima volta. Ogni mattina venivo all’ora stabilita, e lei scendeva attraverso l’aria verde e stratiforme, come attraverso dell’acqua piena di correnti fredde e calde, mi apriva la porta, assonnata, però con quel suo sguardo che frantumava gli specchi. Osservava per un attimo come strizzavo la barba dentro il cappello e come mi levavo i guanti. Unendo il medio e il pollice, con una mossa decisa li rivoltavo a rovescio in contemporanea togliendoli così con la stessa mossa dalle due mani. Quando avevo finito di fare ciò, lei passava al lavoro senza indugi. Era risoluta a studiare a pieno ritmo, il che capitava tutti i giorni. Con volontà instancabile e sistematicità entrava in tutti i dettagli della materia non tenendo conto se questo avveniva al mattino mentre ancora freschi iniziavamo il lavoro, oppure dopo la colazione, o poco prima della fine, quando lavorava un po’ più lentamente, senza saltare però neanche una minuzia. E ancora andavo via alle undici e lei di nuovo notò velocemente che non riuscivo più a mantenere l’attenzione, che i miei sguardi avvizzivano di ora in ora e che rimanevo indietro. Osservava le mie gambe, delle quali una era sempre pronta per fare un passo, mentre l’altra era completamente calma. E poi scambiavano i ruoli.
Quando venne la sessione di gennaio, lei aveva l’impressione che non sarei stato in grado di superare l’esame, però taceva sentendosi un po’ lei stessa colpevole. “Del resto”, concluse, “dovrei baciargli il gomito così che lui possa imparare? Se lui taglia il pane sulla testa, è un affare suo…”
Quando neanche quella volta andai all’esame, lei tuttavia si meravigliò e dopo averlo passato cercò la lista degli iscritti per verificare se per caso non fossi previsto per il pomeriggio, oppure per un altro giorno. Con sua grande sorpresa, il mio nome non c’era affatto sulla lista, né per quel giorno, né per qualunque altro giorno di quella sessione di esami. Era ovvio: io non mi ero neanche iscritto per quella sessione.
Quando di nuovo ci vedemmo a maggio, lei stava preparando “Cemento armato precompresso” e quando alla domanda se io stessi preparando gli esami che avevo tralasciato, ricevette la risposta che anch’io stavo preparando “Cemento armato precompresso”, continuammo con lo studio insieme alla vecchia maniera, come se niente fosse successo. Passammo tutta la primavera studiando, e quando arrivò la sessione di giugno, lei capì già in anticipo che io non sarei apparso all’esame neanche questa volta e che non ci saremmo visti fino all’autunno. Mi osservava pensosa con i begli occhi del suo viso largo in mezzo ai quali c’era spazio per una bocca intera. E veramente, tutto si ripeté ancora una volta. Lei stava superando e alla fine superò “Cemento armato precompresso”, ed io non mi presentai affatto all’esame.
Tornata a casa contenta del successo raggiunto, pur tuttavia nella totale perplessità per quanto riguardava la mia situazione, si accorse che il giorno prima nella fretta io avevo dimenticato da lei i miei quaderni e tra di loro trovò il mio libretto. Lo aprì senza pensare e con stupore constatò che io non stavo preparando affatto matematica, che non ero neanche iscritto alla facoltà di Ingegneria Civile, ma ad un’altra, dove facevo gli esami regolarmente. Si ricordò delle ore interminabili del nostro studiare insieme, che per me dovevano essere un vano sforzo senza scopo, pura perdita di tempo, e si pose una domanda inevitabile: perché? Perché passavo tanto tempo con lei studiando le materie che non avevano niente a che fare con i miei interessi e con gli esami che dovevo superare? Rifletteva, e arrivò a un’unica conclusione: bisogna sempre tener conto anche di quello che è stato taciuto del tutto; tutto fu fatto non per l’esame, ma per lei. Chi l’avrebbe mai detto, pensò, che io sarei stato così timido e che per anni non sarei stato in grado di rivelarle il mio affetto. Andò immediatamente nella stanza in affitto dove abitavo con alcuni coetanei provenienti dall’Asia e dall’Africa e si meravigliò della precarietà che vide; venne a sapere che ero partito verso casa. Siccome le diedero anche l’indirizzo di un piccolo paese vicino a Salonicco, si sedette nella sua Buffalo senza pensare e partì verso la costa egea per cercarmi, risoluta a comportarsi come se non avesse scoperto niente di straordinario. Così fu.
Arrivò al crepuscolo e trovò sulla costa la casa segnalata, completamente spalancata, con un grande toro bianco legato al cuneo, al quale era infilato del pane fresco. Dentro scorse un letto, un’icona sul muro, sotto l’icona una nappa rossa, un sasso forato legato ad un laccio, una trottola, uno specchio e una mela. Sul letto giaceva una giovane nuda dai capelli lunghi, abbronzata dal sole, girata con la schiena verso la finestra ed appoggiata ad un gomito. Un incavo profondo che scendeva lungo la schiena e terminava tra le anche leggermente piegato, spariva sotto la ruvida coperta militare. Aveva l’impressione che la ragazza avrebbe potuto girarsi in qualsiasi momento e che allora avrebbe potuto vedere anche i suoi seni possenti, dal solco profondo, che brillavano nella calda serata. Quando ciò successe veramente, vide che sul letto non v’era affatto distesa una donna. Appoggiato su un braccio masticavo i baffi pieni di miele che mi faceva da cena. Una volta che fu notata e fatta entrare in casa, non riusciva ancora a liberarsi da quella prima impressione di aver trovato nel mio letto una donna. Però, quell’impressione, come anche la stanchezza del lungo viaggio, sparì presto. Dal piatto, che sul fondo aveva uno specchio, ne ricavò una cena doppia: per sé e per la sua anima nell’immagine: fagiolo, noce e pesce, e prima del pasto una piccola moneta d’argento, che teneva, come me, sotto la lingua mentre mangiavamo. Così con una cena ci saziammo tutti e quattro: noi due e le nostre due anime negli specchi. Dopo la cena si avvicinò all’icona e mi chiese che cosa rappresentasse.
“Un televisore”, le dissi. “In altre parole, è la finestra di un mondo che si serve di una matematica diversa dalla tua.”
“Come sarebbe?” chiese lei.
“Molto semplice”, risposi, “I macchinari, gli aeroplani e le macchine assemblati sulla base delle tue valutazioni quantitative e matematiche si appoggiano su tre elementi, i quali sono completamente privi di quantità. Essi sono: il singolare, il punto e il momento presente. Solamente la somma dei singolari crea quantità; il singolare stesso è privo di ogni misurabilità quantitativa. Per quanto riguarda il punto, siccome non ha nessuna dimensione, né larghezza, né altezza, né profondità, esso non è soggetto né a misurazione ne a calcolo. Gli ingredienti più piccoli del tempo invece, hanno sempre un denominatore comune; è il momento presente, e anche esso è privo di quantità ed è incommensurabile. Così gli elementi di base della tua scienza quantitativa rappresentano qualcosa alla cui stessa natura è estraneo ogni approccio quantitativo. Come allora possiamo credere a quella scienza? Perché i macchinari fatti a misura di quegli inganni quantitativi hanno una vita così breve, più breve di quella umana di tre, quattro o più volte? Guarda, anch’io ho un “buffalo” bianco come il tuo. Però lui è fatto in modo diverso dal tuo, programmato a Layland. Verificalo, e vedrai che in qualcosa è migliore del tuo.
“E’ addomesticato?”, mi chiese sorridendo.
“Come no”, risposi, “provalo pure.
Davanti alla porta accarezzò il grande toro bianco e lentamente gli salì in groppa. Quando anch’io lo cavalcai dando le spalle alle corna e guardando lei in viso, lo mandai lungo il mare, così che con due gambe calpestava l’acqua, e con le altre due la terra. In principio era sorpresa quando iniziai a spogliarla. Un pezzo alla volta del suo vestiario cadeva nell’acqua, e poi anche lei iniziò a sbottonare me. In un attimo smise di cavalcare il toro e iniziò a cavalcare su di me sentendo come diventavo sempre più pesante dentro di lei. Il toro sotto di noi faceva tutto quello che avremmo dovuto fare da soli e lei non riusciva più a discernere chi era quello che le procurava il piacere, il toro oppure io. Stando seduta su quel doppio amante, vide attraverso la notte come passammo accanto a un bosco di cipressi bianchi, accanto alla gente che raccoglieva sulla costa la rugiada e sassi bucati, accanto alla gente che accendeva fuochi nelle proprie ombre e quindi le bruciava, accanto a due donne sanguinanti di luce, accanto al giardino lungo due ore, dove nella prima ora cantavano degli uccelli, e nella seconda veniva il buio, nella prima ora fioriva la frutta, e nella seconda dietro i venti nevicava. Allora lei sentì che tutta la pesantezza passò da me in lei e che il toro spronato girava impetuosamente e la portava nel mare consegnandoci finalmente alle onde che ci avrebbero separati…
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Però, non mi disse neanche una parola della sua scoperta. In autunno, lei preparava la tesi e quando le offrii di studiare insieme, non si sorprese affatto. Come in passato, studiavamo ogni giorno dalle sette alla colazione e poi fino alle dieci e mezza, solo che non si impegnava più affinché anch’io dominassi la materia, ed io rimanevo anche dopo le dieci e mezza per una mezz’ora che ci separava dai libri. Quando lei diede la tesi nella sessione di settembre, non si sorprese minimamente che io non andai insieme a lei a dare l’esame.
Si sorprese quando dopo di quello non mi vide più. Né in quello né nei giorni seguenti, né nelle settimane seguenti, né nelle seguenti sessioni d’esame. Mai più. Meravigliata, concluse che le sue valutazioni dei miei sentimenti verso di lei, ovviamente, non erano corrette. Confusa del fatto che non riusciva a indovinare di cosa si trattasse, stava seduta una mattina nella stanza nella quale avevamo studiato insieme per anni e allora lo sguardo le cadde per caso sul servizio da té Wedgwood, che era rimasto sul tavolo ancora dalla colazione. Allora capì. Per mesi, di giorno in giorno con enormi sforzi e infinita perdita di tempo e di energia lavoravo con lei solo per avere ogni mattina una colazione calda, l’unico pasto che potevo permettermi durante quegli anni. Capendo questo, si chiese un’altra cosa ancora. Era possibile che io in realtà la odiassi?
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Infine ci rimane ancora un obbligo: cioè, come era stato promesso all’inizio, di dare i nomi ai protagonisti di questa storia. Se il lettore non si è già ricordato da solo, eccolo l’indovinello. Il mio nome è Balkan. Il suo – Europa.